Dimenticare Sarajevo... Storia di uno
scontro che ha fatto 12.000 morti, ma che oggi nessuno ricorda
più. O quasi. E storie di quotidiana sofferenza.
Questo
libro racconta storie. Perché ora che sono passati dieci
anni dalla fine dell'assedio di Sarajevo, 1.300 giorni,
12.000 morti, ora che si sa quasi tutto dell'inettitudine
della comunità internazionale, degli intrecci assai poco
virtuosi tra i signori della guerra e il resto del mondo,
si comincia persino a fare luce sugli affari, si cercano
verità al Tribunale dell'Aja, anche per consegnare alla
Storia una memoria giudiziaria dell'orrore. Ma si tendono
a dimenticare e a perdere nella memoria le storie della
gente, le sofferenze intime, le piccoli azioni eroiche di
chi ha resistito, di chi ha detto una parola chiara alla
guerra che voleva uccidere la vita. Le analisi
geopolitiche si possono leggere altrove. Non so se tutte
le persone che ho incontrato nei mesi passati a Sarajevo,
durante l'assedio, sono ancora vive. Di alcune ho perso le
tracce, ma ho l'opinione che siano migliorate, che abbiano
vinto la sfida della vita. |
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Sicuramente
hanno migliorato tutti noi, che abbiamo vissuto con loro
qualche settimana, qualche giorno, anche soltanto qualche ora.
Le bottiglie di vino di Izet
Una volta ebbi un autista che si chiamava Izet. Non so più
dove sia finito. Ho lavorato con lui nell'estate del 1993.
Aveva un'auto tedesca nera; prima della guerra faceva
l'autotrasportatore e veniva spesso in Italia. Parlava un
italiano spettacolare, parole in veneto e "furlan" mischiate a
serbo-croato. Trovava sempre la benzina a un buon prezzo e
qualche volta anche verdura fresca e bottiglie di vino da
accompagnare al povero desco dei giornalisti, ospiti di lusso
dell'Holiday Inn di Sarajevo.
Dentro la città assediata si viveva una vita più intensa,
anche dal punto di vista dei sentimenti. Si vedeva dalle
piccole cose. Per esempio, non ci si poteva lavare le mani da
soli, perché occorreva che qualcuno vuotasse adagio l'acqua
dalla bottiglia, per non sprecarla, essendo l'acqua un bene
prezioso. Una mattina, sorridente come sempre, Izet mi
disse:<< Oggi, ti faccio conoscere mio figlio. Ma dopo, prima
lavoriamo>>.
Lavorammo in giro per la città, correndo in auto come al
solito. Arrivammo dalle parti dell'ospedale Kosevo. Izet prese
a destra e salì verso la collina. Abitava in una piccola villa
con il giardino davanti, due alberi da frutto, una panchina di
legno. << Ecco, mio figlio è sepolto lì >>, disse
semplicemente, senza lacrime. Aveva 22 anni. C'era un cumulo
di terra e la stele di legno, secondo l'usanza di seppellire
dei musulmani.
Il figlio di Izet era stato arruolato nell'esercito della
città. Per alcuni giorni aveva dato l'assalto a una collina
dalla quale i serbi sparavano sulla parte vecchia della città.
Erano morti in tanti, qualcuno era stato fatto prigioniero. Un
giorno i serbi se ne andarono da quell'altura. Ma prima
uccisero e poi gettarono giù per la scarpata i prigionieri. Il
figlio di Izet era uno di quelli. Quando gli restituirono il
corpo era una brutta giornata, troppe granate, troppi colpi
dei cecchini. Non riuscirono a raggiungere il cimitero. Lo
seppellirono in giardino.
I Balcani, un fastidio rimosso
Ora le storie dell'assedio, la guerra in Bosnia, la grande
rapina dei condottieri di Belgrado, i luoghi della sofferenza
vengono dimenticati. Una guerra scaccia sempre la precedente.
All'orrore non si riesce a porre fine: la tragedia del Medio
Oriente, le esecuzioni a Baghdad, le fiamme nel Caucaso, i
bambini di Beslan trucidati nella scuola numero 1, i conflitti
dimenticati dell'Africa. La guerra nei Balcani non appare
neppure come una colpa indelebile marchiata sulla pelle
dell'Europa e del mondo. La ragione e le analisi geopolitiche
tendono a percorrere, dopo, quasi sempre schemi schemi
assolutori o, per lo meno, di oblio. Potremmo anche essere
contenti: il fastidio balcanico finalmente è stato rimosso.
Ma proprio ora è importante ricordarsi delle storie
dell'assedio. Le storie di questo libro sono state raccolte
nel corso della guerra tra il 1991 e il 1995 e nel pesante
dopoguerra dei Balcani.
Riportani in primo piano le sofferenze e le speranze. Sono
quasi tutte scritte con i tempi dei verbi al presente, nel
tentativo di riproporre oggi avvenimenti spariti. Perché c'è
una memoria che non può essere spazzata via.
E' quella
della Storia, che si specchia negli occhi delle donne, degli
uomini, dei bambini, che l'hanno subita. Nessuno può
permettersi di dimenticare Sarajevo. |